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"La leggenda dell'albero di Natale." Quando Gesù nacque, anche gli...

Quando Gesù nacque, anche gli alberi, come gli animali e come gli uomini, vollero offrirgli i loro doni per consolare la sua povertà.
Solo l'abete non aveva fatto la sua offerta: infatti non sapeva che cosa dare.
"Che cosa posso offrire, io, al Bambino?" chiese agli altri.
"Tu! - risposero - tu non hai nulla da offrire. I tuoi aghi aguzzi pungerebbero il bimbo, e le tue lacrime sono appiccicose di resina".
Il povero abete si senti molto infelice e disse con tristezza: "Avete ragione. Non ho proprio niente che sia degno di essere offerto al Bambino".
Un angelo udi quelle parole; ebbe compassione dell'abete cosi umile e decise di aiutarlo.
In alto, nel cielo, le stelle cominciavano a brillare.
L'angelo chiese ad alcune di esse di scendere e di posarsi sui rami dell'abete.
Esse ubbidirono e il grande albero ne fu tutto illuminato.
Il Bambino Gesù lo vide e i suoi occhi brillarono di gioia. L'abete ne fu molto felice.

Molti anni dopo, le persone che conoscevano questa storia presero l'abitudine di far brillare in ogni casa, la vigilia di Natale, un abete carico di candele accese, come quello che aveva brillato davanti al presepe.

Lettera di Natale per chi Mi Ha Giudicato, Per Chi Mi ha Ferito e per Chi Mi Ha Tradito... (Leggetela)


Non giudicare chi si fida di te … piuttosto accompagnalo come un angelo custode, silente e sincero.

Nella vita c’è sempre qualcuno che ti ferisce, che ti tradisce, che ti inganna o che, in poche e tristi parole, ti spezza il cuore.
A volte, e questo non capita così di rado, quel qualcuno è una persona importante, è una parte della tua vita, è un affetto che sentivi vicino e speravi di conservare per sempre immutato e intangibile.
La vita ci insegna, però, che nulla è inviolabile, nessuno resta uguale nei sentimenti e nei bisogni, e sempre per ricevere amore occorre dare affetto, perché l’amore è un equilibro che si raggiunge solo nella reciprocità affettiva.
C’è ancora qualche cosa da dire a chi sembra non amarci più?
Anche le persone e con loro i sentimenti!
Si cambia perché cambiano le strade della vita …
e la vita, per quando si scelga e si orienti, spesso ci costringe a seguire vie sconosciute, a volte buie, non di rado imprevedibili o diverse da qualunque nostra aspettativa.
Ci sono persone che su quelle vie vorremo incontrare,
ma ci sono anche persone che non avremo mai voluto lasciare, persone che non dovrebbero guardarci di schiena mentre andiamo via ma che dovrebbero tenerci la mano, restara al nostro fianco, sostenerci, consigliarci … semplicemente accompagnarci.

E’ più difficile accompagnare che vivere:
chi vive cammina e sceglie il passo, la strada, la curva, salta il fosso o ci cade, inciampa e resta a terra o si rialza; chi accompagna non decide ma sta, sta come un angelo che vola silente e più che sussurrare al cuore non può fare.
Accompagna una madre, accompagna un padre, accompagna un fratello o un amico … chi cade non è l’accompagnatore che nel momento del bisogno ha il duro compito di sostenere; chi sceglie non è l’accompagnatore che ha il difficile ruolo di seguire; chi fa bene o sbaglia non è l’accompagnatore che pure è costretto a soffrire quando non può che constatare una scelta sbagliata.
L’accompagnatore, chiunque esso sia, non può e non deve giudicare.

Il consiglio è cosa ben diversa dal giudizio, il consiglio è un’interpretazione della vita che nessuno può imporre ad un altro.
Ci sono momenti nella vita di un sentimento a due in cui l’accompagnatore è costretto al silenzio ma sempre, se prova affetto ed ama, deve rendere all’altro la forza del proprio cuore come appoggio e supporto.

A te che mi hai giudicato, ferito, lasciato mentre andavo per la mia strada …
Oggi ti chiedo di guardare al mio cammino non per giudicare il mio operato ma per sentire la forza che il mio cuore lascia pulsare in ogni passo.
Una buona mamma, un buon papà, un buon fratello, un buon amico non si giudicano reciprocamente ma si amano semplicemente e l’amore non dipende dalle scelte o dagli atteggiamenti dipende dal cuore.
Nella storia personale chi ama col cuore non può giudicare gli altri ma solo sopportarli sinceramente.

Fonte

Per Natale fai un regalo ai tuoi genitori...


Il postino suonò due volte. Mancavano dieci giorni a Natale. Aveva fra le braccia un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e legato con nastri dorati.
«Avanti», disse una voce dall'interno.
Il postino entrò. Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena d'ombre e di polvere. Seduto in una poltrona c'era un vecchio.
«Guardi che stupendo paccone di Natale!» disse allegramente il postino.
«Grazie. Lo metta pure per terra», disse il vecchio con la voce più triste che mai.
Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano. Intuiva benissimo che il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva certo l'aria di passarsela bene. Allora, perché era così triste?
«Ma, signore, non dovrebbe fare un po' di festa a questo magnifico regalo?».
«Non posso... Non ce la faccio proprio», disse il vecchio con le lacrime agli occhi. E raccontò al postino la storia della figlia che si era sposata nella città vicina ed era diventata ricca. Tutti gli anni gli mandava un pacco, per Natale, con un bigliettino: «Da tua figlia Luisa e marito». Mai un augurio personale, una visita, un invito: «Vieni a passare il Natale con noi».
«Venga a vedere», aggiunse il vecchio e si alzò stancamente.
Il postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino. Il vecchio aprì la porta.
«Ma...» fece il postino.
Lo sgabuzzino traboccava di pacchetti di regali natalizi. Erano tutti quelli dei Natali precedenti. Intatti, con la loro preziosa carta e i nastri luccicanti.
«Ma non li ha neanche aperti!» esclamò il postino allibito.
«No», disse mestamente il vecchio. «Sono pieni di denaro, ma non c'è amore dentro».

Una mamma racconta... (Leggetela)


Tesoro mio, carne della mia carne, fiato della mia vita; angiolo della tua mamma!

Accarezzo come in un sogno la tua testolina nera e ricciuta, rivedo i tuoi occhi celesti; ricordo la tua vocina cara. Già mi chiamavi "mamma" e mi ridevi con le gengive rosa dove erano le perle dei due dentini nuovi.

Eri la mia gioia, la mia speranza, la mia ambizione. Perché dunque ti uccisero quei cani rabbiosi? Perché non uccisero anche me, con te, quei crudeli?

Seduta sopra una pietra, dinanzi alla casa luminosa, ti cullavo, cantandoti una nenia.

Il sole brillava fra i tuoi riccioli lucidi. Dalle labbruzze fresche usciva il tuo respiro più profumato dell'alito di primavera.

A un tratto udii urlare in fondo alla strada: alzai lo sguardo e vidi una donna fuggire, col proprio figlio stretto al petto. Uno sgherro la inseguiva con la spada sguainata.

Non capii. Non potevo capire. Presa dal terrore mi alzai e corsi in casa. Ti svegliasti piangendo: quel pianto fu la tua, la mia morte. Un soldato entrò dietro di me; ti afferrò per un piede. Urlavo: - lascialo, lascialo; gli fai male!

Alzò la spada... No, non è da dirsi. Fu cosa troppo orribile. La tua gola, la tua gola bianca, delicata... Piangesti: "Mam...". L'ultima sillaba fu un fiotto di sangue che mi bagnò il petto.

Mostri, perché non uccideste anche me? Perché quel sangue non fu il mio?

Amore della mamma, tesoro mio, anima mia! Perché ti uccisero così? Che avevi fatto di male? Tu eri innocente. Erode, il tristo Erode, che aveva saputo della nascita di un bambino divino, fremeva di gelosia e tremava di paura. Temeva, il tiranno, che quel bambino gli togliesse il trono.

Ma attese invano il ritorno dei Magi! Un Angiolo era apparso in sogno a quei sapienti, dicendo: - Partite nascostamente, senza insegnare a Erode dove si trova il Bambino.

Lo stesso Angiolo apparve a Giuseppe: - Alzati - gli disse. - Prendi il Bambino e la madre. Fuggi in Egitto. Erode cerca il Bambino per farlo morire.

E Giuseppe partì. Ma Erode, credendo il Bambino ancora a Betlem, ordinò che fossero uccisi tutti i maschi al di sotto dei due anni.

Oh scellerato! Che m'importa se di lì a pochi mesi i vermi lo ridussero a un mucchio di carne putrefatta? Che m'importa se il suo copro marcì sul trono?

Tu ero morto, sorriso del mondo, e io tenni a lungo il tuo corpicino bianco tra le mie braccia. Volevo cantarti una ninnananna, ma ululavo come una lupa ferita.

Lo so. Ora tu sei in cielo. Gesù ti ha accolto nella sua corte. Hai una veste rossa come il sangue che sgorgò dalla tua gola. Un'aureola d'oro è sopra i tuoi riccioli bruni. Con gli altri bambini uccisi con te, come te, in quello stesso giorno, formi il coro dei Santi innocenti.

Tu sei felice! Ma io piango ancora ricordando la tua orribile morte, tesoro mio, carne della mia carne, fiato della mia vita; angiolo della tua mamma!

Il bambino senza scarpe... (Bellissimo racconto)


Era la notte Santa. Un povero calzolaio lavorava ancora nella sua unica stanza, dove viveva insieme alla moglie. Entro la mattina successiva, avrebbe dovuto consegnare un paio di scarpe per il figlio di un ricco signore.

- Hai già pensato a quello che potremo comprarci con il guadagno di questo lavoro? - chiese il calzolaio alla moglie.

- Sono piccole: ci daranno ben poco! - scherzò lei.

- Accontentiamoci! Meglio questo che niente!

Il calzolaio appoggiò le scarpe sul banco e se le guardò soddisfatto.

- Guarda che meraviglia! - esclamò. - E senti come sono calde con questa pelliccetta dentro!

- Un paio di scarpette degne di Gesù Bambino!

- Hai ragione - rispose il calzolaio mettendosi a spazzolarle.

- Allora, che cosa pensi di compare per il pranzo di domani? - riprese l'uomo dopo un attimo.

- Mah... pensavo a un cappone.

- Già, senza un cappone non sarebbe un vero Natale!

- Forse anche mezzo...

- D'accordo, e poi?

- Due fette di prosciutto.

- Sicuro: il prosciutto come antipasto. E poi?

- E poi il dolce.

- E poi la frutta secca...

- Giusto. E da bere?

- Una bottiglia di spumante.

- Sì, una bottiglia basterà, ma che sia buono!

A quel punto si sentì un colpo alla porta.

- Hanno bussato? - chiese l'uomo.

- Ma chi sarà a quest'ora? Forse il cliente...

- No, gliele devo portare io domattina.

- Allora sarà il vento.

Ma il rumore si sentì di nuovo. La donna aprì la porta ed ebbe un moto di sorpresa. Un bambino la guardava, con grandi occhi neri, dalla soglia della porta. I suoi capelli erano tutti spettinati e i suoi vestiti erano laceri e sporchi.

- Entra, piccolo - lo invitò la donna.

Il bambino entrò. Aveva le labbra bluastre dal freddo. Il calzolaio guardò subito i suoi piedini. - Ma tu sei scalzo! - gridò.

Il piccolo non parlò: guardò le scarpe, anzi le accarezzò con gli occhi, ma senza invidia.

L'uomo e la moglie guardarono prima i piedi nudi del bambino e poi le scarpe sul tavolo; quindi la donna fece un cenno al marito. Il calzolaio prese in mano le scarpe, le osservò contento e disse: - Prendile, te le regalo. Sono morbide e calde.

La moglie aiutò il bambino a infilarsele.

- Grazie - rispose sorridendo. - Sono le prime che porto. Ora però devo andare. Buona notte.

Il calzolaio e la moglie non ebbero neanche il tempo di salutarlo che il bambino era già sparito.

- E' fatta - esclamò l'uomo. - Ora niente più prosciutto, né cappone, né frutta, nè dolce.

- E neanche lo spumante! In fondo a me lo spumante non piace nemmeno.

- E io non digerisco il cappone! Anche del prosciutto posso farne a meno. E il dolce poi... C'è rimasta qualche noce e un po' di pane raffermo - disse la donna.

- Va benissimo. Passeremo un bel Natale.

Tutti e due pensavano al bambino. - Penso che gli siano piaciute molto le mie scarpe - aggiunse il calzolaio.

- Sì, mi sembrava molto contento.

In quel momento suonò la Messa di mezzanotte e la stanza si illuminò all'improvviso. Il calzolaio e la moglie furono abbagliati da quella luce; poi, quando riaprirono gli occhi, nel punto in cui il bambino aveva calzato le scarpe, videro spuntare miracolosamente un abete con una stella in cima. Dai rami penzolavano capponi, prosciutti, dolci, frutta secca e bottiglie di spumante.

Soltanto allora capirono chi fosse quel bambino e si inginocchiarono a ringraziare Dio.

La leggenda dell'albero di Natale. (Bellissima da leggere)


In un remoto villaggio di campagna, la sera della Vigilia di Natale, un ragazzino si recò nel bosco alla ricerca di un ceppo di quercia da bruciare nel camino, come voleva la tradizione, nella notte santa.
Si attardò più del previsto e, sopraggiunta l’oscurità, non seppe ritrovare la strada per tornare a casa. Per giunta incominciò a cadere una fitta nevicata.
Il ragazzino si sentì assalire dall’angoscia e pensò a come, nei mesi precedenti, avesse atteso quel Natale che ora, forse, non avrebbe potuto festeggiare.
Nel bosco, ormai spoglio di foglie, vide un albero ancora verdeggiante e si riparò dalla neve sotto di esso: era un abete. Sopraggiunta una grande stanchezza, il piccolo si addormentò raggomitolandosi ai piedi del tronco e l’albero, intenerito, abbassò i suoi rami fino a far loro toccare il suolo, in modo da formare una sorta di capanna che proteggesse dalla neve e dal freddo il bambino.
La mattina egli si svegliò, udì in lontananza le voci degli abitanti del villaggio che si erano messi alla sua ricerca e, uscito dal suo riparo, poté con grande gioia riabbracciare i suoi familiari.
Solo allora tutti si accorsero del meraviglioso spettacolo che si presentava davanti ai loro occhi: la neve caduta nella notte, posandosi sui rami frondosi che la pianta aveva piegato fino a terra, aveva formato dei festoni, come delle decorazioni e dei cristalli che, alla luce del sole che stava sorgendo, sembravano luci sfavillanti, di uno splendore incomparabile.
In ricordo di quel fatto, l’abete venne adottato a simbolo del Natale, e da allora in tutte le case viene addobbato ed illuminato, quasi per riprodurre lo spettacolo che gli abitanti del piccolo villaggio videro in quel lontano giorno. Da quello stesso giorno gli abeti nelle foreste hanno mantenuto, inoltre, la caratteristica di avere i rami pendenti verso terra.

La leggenda del pettirosso. (Racconto di Natale)

Nella stalla dove stavano dormendo Giuseppe, Maria e il piccolo Gesù, il fuoco si stava spegnendo. Presto ci furono soltanto alcune braci e alcuni tizzoni ormai spenti. Maria e Giuseppe sentivano freddo, ma erano così stanchi che si limitavano ad agitarsi inquieti nel sonno.
Nella stalla c'era un altro ospite: un uccellino marrone; era entrato nella stalla quando la fiamma era ancora viva; aveva visto il piccolo Gesù e i suoi genitori, ed era rimasto tanto contento che non si sarebbe allontanato da lì neppure per tutto l'oro del mondo. Quando anche le ultime braci stavano per spegnersi, pensò al freddo che avrebbe patito il bambino messo a dormire sulla paglia della mangiatoia. Spiccò il volo e si posò su un coccio accanto all'ultima brace. Cominciò a battere le ali facendo aria sui tizzoni perché riprendessero ad ardere. Il piccolo petto bruno dell'uccellino diventò rosso per il calore che proveniva dal fuoco, ma il pettirosso non abbandonò il suo posto. Scintille roventi volarono via dalla brace e gli bruciarono le piume del petto ma egli continuò a battere le ali finché alla fine tutti i tizzoni arsero in una bella fiammata. Il piccolo cuore del pettirosso si gonfiò di orgoglio e di felicità quando il bambino Gesù sorrise sentendosi avvolto dal calore.
Da allora il petto del pettirosso è rimasto rosso, come segno della sua devozione al bambino di Betlemme.

La pecora nera. (racconti di Natale)


C'era una volta una pecora diversa da tutte le altre. Le pecore, si sa, sono bianche; lei invece era nera, nera come la pece..

Quando passava per i campi tutti la deridevano, perché in un gregge tutto bianco spiccava come una macchia di inchiostro su un lenzuolo bianco: «Guarda una pecora nera! Che animale originale; chi crede mai di essere? » Anche le compagne pecore le gridavano dietro: «Pecora sbagliata, non sai che le pecore devono essere tutte uguali, tutte avvolte di bianca lana?». La pecora nera non ne poteva più, quelle parole erano come pietre e non riusciva a digerirle.

E così decise di uscire dal gregge e andarsene sui monti, da sola: almeno là avrebbe potuto brucare in pace e riposarsi all'ombra dei pini. Ma nemmeno in montagna trovò pace. «Che vivere è questo? Sempre da sola!», si diceva dopo che il sole tramontava e la notte arrivava. Una sera, con la faccia tutta piena di lacrime, vide lontano una grotta illuminata da una debole luce. «Dormirò là dentro » e si mise a correre. Correva come se qualcuno la attirasse. «Chi sei?», le domandò una voce appena fu entrata. «Sono una pecora che nessuno vuole: una pecora nera! Mi hanno buttata fuori dei gregge». «La stessa cosa è capitata a noi! Anche per noi non c'era posto con gli altri nell'albergo. Abbiamo dovuto ripararci qui, io Giuseppe e mia moglie Maria. Proprio qui ci è nato un bel bambino. Eccolo!». La pecora nera era piena di gioia. Prima di tutte le altre poteva vedere il piccolo Gesù.

«Avrà freddo; lasciate che mi metta vicino per riscaldarlo!». Maria e Giuseppe risposero con un sorriso. La pecora si avvicinò stretta stretta al bambino e lo accarezzò con la sua lana. Gesù si svegliò e le bisbigliò nell'orecchio: «Proprio per questo sono venuto: per le pecore smarrite!».

La pecora si mise a belare di felicità. Dal cielo gli angeli intonarono il «Gloria».

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