La storia del Natale.

Il Natale è la festa della nascita del Signore, celebrata il 25 dicembre. Non c’e nessun’altra festa cristiana cosi carica di tradizioni, di fascino, che abbia altrettanto richiamo popolare,

con le cerimonie e i riti più solenni, con usanze a volte di incerta origine e che si perdono nei secoli passati. L’uso di scambiarsi doni, la decorazione dell’albero di Natale, il presepe,


(la cui prima rappresentazione è attribuita a san Francesco d’Assisi), la figura di Babbo Natale, ormai inflazionata dai consueti e ripetitivi film natalizi. La data del 25 è, in realtà, puramente simbolica. Fu scelta dalla chiesa nel 440 d.C. per farla coincidere con il solstizio d’inverno e con la festa pagana in onore del dio del sole, per distogliere l’attenzione dei fedeli da quella festa, che con la sua spettacolarità riuniva molte persone. Infatti, non si conosce la data esatta della nascita di Gesù. I vangeli non ne fanno menzione. Stranamente però, in un almanacco, redatto nel 354 d.C. da Furio Dionisio Filocalo, vi è un frammento di un calendario liturgico cristiano in uso a Roma, che alla data VIII Kalendas Ianuarias, cioè il 25 dicembre, dice: Natus est Christus in Betleem Judaeae. Nel corso del Medioevo, sorsero un numero incalcolabile di leggende e credenze varie legate al Natale, molte delle quali messe in relazione più alla magia e alla ciarlataneria piuttosto che ai veri valori cristiani. Si credeva, ad esempio, che se si moriva alla mezzanotte della notte di Natale, si andava subito in paradiso. I bambini nati la notte di Natale poi avrebbero dovuto avere poteri sovrannaturali, ma per altri, erano invece portatori di un flagello, perché nati lo stesso giorno di Cristo. Nel Natale, come già accenato prima, si mescolano simboli e usanze precedenti al cristianesimo, e solo di alcune è possibile tracciarne l’origine. La scelta dell’abete non è casuale. Infatti, nell’antico Egitto, l’abete simboleggiava la natività. Nell’antica Grecia, l’abete bianco era sacro alla dea Artemide, che era la dea della luna, della caccia e delle nascite. Inoltre, nel calendario celtico, l’abete era destinato al culto del giorno della nascità del Fanciullo Divino. Secondo altre fonti però, potrebbe derivare dal ciocco di Yule, (in inglese, termine arcaico per Natale) associato a una festa pagana nordica, che durava dodici giorni, il cui ramoscello veniva bruciato all’aperto, e dall’albero del paradiso, presente nei drammi antichi su Adamo ed Eva. Il moderno albero di Natale potrebbe originare anche da Martin Lutero, che vide un abete illuminato dalle stelle nella foresta. L’usanza di scambiarsi regali sembra derivi da un rito pagano romano, strenae, periodo in cui la popolazione si regalava cibo, monete e pietre preziose come portafortuna per il nuovo anno. Il personaggio che è divenuto famoso in tutto il mondo per consegnare i regali a Natale è Santa Claus,
in Italia Babbo Natale, che deriva da San Nicola. Dice la leggenda, che San Nicola, vescovo di Myra del IV secolo d.C., avendo ereditato molti beni e denari dai suoi genitori, per liberarsene cominciò a fare regali a chi ne avesse più bisogno, trovando gioia nel semplice donare ai bisognosi. Da qui, ebbe origine questa moderna consuetudine dei doni natalizi. Secondo la tradizione, Babbo Natale arriva con una slitta trainata da renne, ma in alcuni paesi, ad esempio l’Australia, dove non c’è mai neve durante il Natale, si dice, specie ad uso dei racconti per l’infanzia, che venga con una zattera rimorchiata da alcuni delfini.

La ricerca della felicità.

Le emozioni sono componenti fondamentali della nostra vita. Da esse, spesso, traiamo gli stimoli che muovono le nostre giornate.
Seppure ogni singola emozione sia importante e permetta a chi la sperimenta di sentirsi vivo, l’uomo è soprattutto alla ricerca di quelle sensazioni che lo facciano star bene e lo appaghino. In una parola esso è continuamente “alla ricerca della felicità”. Quest’ultima è data da un senso di benessere generale e la sua intensità varia a seconda del numero e della forza delle emozioni positive che un individuo sperimenta. Questo stato di benessere, soprattutto nella sua forma più intensa – la gioia – non solo viene sperimentato dall’individuo, ma si accompagna, da un punto di vista fisiologico, ad un’attivazione generalizzata dell’organismo.
Molte ricerche, infatti, mettono in luce come essere felici abbia notevoli ripercussioni positive sul comportamento, sui processi cognitivi, nonché sul benessere generale della persona. La felicità è dunque una condizione di benessere dell’essere umano, ed esso è portato, fin dalla sua comparsa, a ricercare questa condizione. Questo tema appassiona da sempre l’umanità: scrittori, poeti, filosofi, persone comuni. Ognuno si trova a pensare, descrivere e cercare questo stato di grazia. Per tentare di definire questa condizione alcuni studiosi hanno posto l’accento sulla componente emozionale, come il sentirsi di buon umore, altri, invece, sottolineano l’aspetto cognitivo e riflessivo, come il considerarsi soddisfatti della propria vita. Secondo teorie contemporanee, la felicità sta nel provare ciò che di più bello esiste nella vita. Non è un’emozione oggettiva ma una capacità individuale. Non è casuale, come un evento del destino, ma bisogna scoprirla ed imparala. Bisogna, infatti, imparare ad essere felici. La felicità non è inseguire i sogni ed aspettative di domani, ma al contrario cercare di godere di quello che sia ha oggi. Essa, infatti, non è nel futuro, ma solo nel presente.

Tornò dall'aldilà per riprendersi il cane..

Joe Benson, di Wendover, nell'Utah, era il capo spirituale degli indiani
Goshute. Era sempre accompagnato da un superbo pastore tedesco che chiamava Sky. Quando Benson diventò vecchio e semicieco, Sky gli fece da guida e lo difese dai pericoli. Ma la salute di Benson continuò a peggiorare, e un giorno, verso il finire del 1962, egli annunciò a sua moglie Mable che sentiva che, di lì a poco, sarebbe morto. Mable avvertì i parenti e poco dopo essi furono al suo capezzale. Ma, avendo ormai abbandonato le tradizioni indiane, insistettero perché egli venisse portato all'ospedale nella vicina Owyhee, nel Nevada. Ignorarono le sue proteste e il sordo ringhiare di Sky e lo fecero ricoverare. Benson rimase all'ospedale solo per breve tempo. Quando i medici videro che non c'era più niente da f are, lo rimandarono a casa dove, poco dopo, nel gennaio del 1963, morì. Dopo le cerimonie funebri parecchi degli intervenuti chiesero di poter avere Sky. La signora Benson, vedendo che il cane sembrava ancora più prostrato di lei dal dolore, sentì che non sarebbe stato giusto cederlo, e così lo tenne con sé. Dieci giorni dopo, nel guardare dalla finestra, vide che qualcuno stava dirigendosi verso la casa. Allora accese la stufa e preparò del caffè. Quando alzò gli occhi, comparve sull'uscio un uomo che essa riconobbe subito: era il suo defunto marito. Fedele alle tradizioni del suo popolo, la donna gli disse gentilmente che era morto e che non aveva niente da fare in questo mondo. Joe Benson annuì e si limitò a dire: "Me ne vado subito. Sono tornato a prendere il mio cane". Fece un fischio e Sky, scodinzolando gioioso arrivò di corsa nella cucina. "Voglio il mio guinzaglio" disse Benson. Sua moglie lo staccò da un gancio appeso alla parete e glielo porse, badando bene a non toccare il fantasma. Egli allacciò il guinzaglio al collare di Sky e uscì dalla cucina, scese le scale e si avviò per il sentiero che circondava la collina. Dopo qualche minuto di esitazione, la signora Benson corse dall'altra parte della collina. Di Joe e Sky non c'era neanche l'ombra. Arvilla Benson Urban, la figlia di Joe e Mable, che abitava alla porta accanto, fu testimone della strana visita e lo confermò in una dichiarazione scritta e giurata in questi termini: "Ho visto mio padre entrare nella casa e non più di pochi minuti dopo l'ho visto andarsene col nostro cane al guinzaglio. Ho visto mia madre andargli dietro e, d'impulso, l'ho seguita. Quando sono arrivata sulla cima della collina, mio padre e il suo cane non c’erano più".

Nei giorni che seguirono i giovani della famiglia cercarono il cane, ma senza risultato. Era come se Sky fosse svanito, col suo amato padrone, in un altro mondo.

Voglio un Natale vero. Niente...


Niente pacchi infiocchettati, buste griffate con doni chic bottiglie di vini pregiati. Voglio un Natale vero quello fatto di valori e sentimenti, quello che è fare insieme il presepe con l'agnello che non stà mai in piedi perché ha la gamba rotta oppure uno dei re magi ha perso il suo dono chissà dove. Voglio il Natale che nella mattina del 25 ti alzi e senti l'odore della cucina che riempie la casa con tutti che parlano e ridono voglio solo un Natale d'amore.
(Donatella Fantauzzi)

Che cos'è la felicità? È un caffè con un'amica..È un

bacio rubato. Un messaggio. Lo sguardo intenso di un passante. E’ rispondere al telefono ed udire con sorpresa la voce di chi ami. E’ una boccata d’aria fresca dopo una giornata rinchiusa in una stanza. E’ un sorriso. E’ una passeggiata al sole dopo settimane di pioggia.
E’ un profumo nuovo. E’ il sorriso di un bambino. E’ una confidenza fra sorelle. E’ la tua canzone preferita capitata casualmente alla radio. E’ un’emozione improvvisa. E’ la luna piena. E’ un abbraccio affettuoso.
No, non pensare a domani, cosa farai e se sarai felice. Goditi il momento presente, è l’unico che possiedi. E’ l’unico che puoi vivere. Non chiederti se ci saranno le opportunità giuste, creale. Non pensare troppo al domani, respira l’istante presente. Non domandarti se domani pioverà. Oggi c’è il Sole, ed è questo quello che conta. Goditi ogni istante. Ogni emozione, ogni fremito. Sono queste le nostre dosi di felicità. E in quei secondi azzittisci i pensieri. Shh, ora chiudi gli occhi ascolta il battito incalzante del tuo cuore.
Ed ora dimmi, non è forse questa la felicità?

I rimedi per denti bianchi e alito profumato (con la buccia di banana)

Non c’è nulla di più seducente di un bel sorriso. Denti bianchi e alito fresco sono un biglietto da visita straordinario per chiunque, in grado di affascinare e attrarre magicamente. Questo perché la bocca, insieme agli occhi, è il punto focale del viso, la usiamo per comunicare, per esprimere il nostro stato d’animo, per mangiare, ma anche per baciare.
In questo senso nessun punto del corpo è più strategico per attirare l’attenzione. Labbra carnose, magari ben truccate con un rossetto alla moda, sono un’infallibile arma di seduzione ma… che accade se quando si apre la bocca ciò che appare sono denti gialli e un alito pestilenziale? Ecco perché è così importante curare l’igiene della bocca e dei denti, perché è bene farsi controllare dal proprio dentista regolarmente ed effettuare una pulizia dei denti ogni tanto.
Per quanto riguarda l’igiene orale casalinga, questa è ancora più importante, perché altrimenti rischiamo davvero di compromettere la salute di denti e gengive. L’alito cattivo, infatti, nella maggior parte dei casi è proprio provocato da una igiene dentale poco scrupolosa che abbia lasciato in bocca residui di cibo imputriditi, da infezioni della gengiva e dei denti, da carie trascurate. Insomma, un bel disastro originato dalla proliferazione dei batteri del cavo orale. Quindi, per purificare l’alito, innanzi tutto laviamoci i denti con un buon dentifricio al fluoro e usiamo sempre il filo interdentale per rimuovere qualunque traccia di cibo. Ogni giorno, poi, per un’azione antibatterica e igienizzante, facciamoci un bello sciacquo del tutto naturale con un bicchiere d’acqua e un cucchiaino di sale da cucina o di bicarbonato di sodio. Per un’azione disinfettante ancora più efficace possiamo aggiungere un cucchiaino di acqua ossigenata. Per garantirci l’alito sempre fresco durante il giorno con rimedi naturali, poi, possiamo masticare una fogliolina di salvia, dei semi di cumino oppure un chicco di caffè.
E per sbiancare i denti? Senza aspettarci miracoli, possiamo rimuovere la patina grigiastra che si deposita regolarmente sopra lo smalto dei denti effettuando ogni tanto un bel lavaggio con lo spazzolino pulito e asciutto spolverato di bicarbonato di sodio e ben passato su denti e gengive. Si tratta di un rimedio molto efficace ma attenzione a non effettuare questa operazione troppo spesso perché ha un lieve effetto abrasivo. Altro rimedio naturale molto buono è quello di strofinare su denti e gengive la parte interna (quella bianca) della buccia di banana. Tutto chiaro? Provate!

Il Natale ci sa ricordare la bellezza dei piccoli gesti..


e le attenzioni per le persone a cui teniamo, solo per questo è una gioia del cuore sapere che sia una tradizione. Lasciarsi abbagliare dal pensiero che sia solo una festa consumistica è tutta una scusa per i cuori aridi che non sanno capire che, anche un piccolo pensiero anche fatto con le proprie mani, puo’ scaldare il cuore.(Stephen Littleword)

Jingle Bells in...odore di Natale. (Video)


La vera storia di Santa Lucia, ecco perché non si mangiano pane e pasta.


Lucia nasce a Siracusa alla fine del III secolo in una famiglia nobile e molto ricca. Da piccola rimane orfana di padre e con la madre sono costrette a professare di nascosto la religione cristiana per sfuggire alle persecuzioni. Ancora ragazzina, Lucia era promessa sposa a un giovane pagano ma lei non aveva alcun interesse per il matrimonio: in lei era forte l’amore per Dio. Sua mamma inizia a stare male e soffre di gravi emorragie. Lucia la convince a recarsi in pellegrinaggio a Catania presso la tomba di Sant’Agata, in occasione dell’anniversario del suo martirio per chiedere la grazia della guarigione. Dopo la messa, Lucia, mentre prega sul sepolcro, si addormenta e in sogno le appare Sant’Agata che le promette la guarigione della madre e le anticipa che diventerà santa. Subito la madre ritornò a stare bene. Supportata da questo miracolo e dalle parole della Santa, Lucia tornata a Siracusa comunica alla madre che non voleva sposarsi e che la sua intenzione era quella di aiutare i poveri della città, donando loro tutto quello che possedeva. La notizia arriva alle orecchie del pretendente di Lucia che preso dall’ira, avendo scoperto la sua fede cristiana, la denuncia all’arconte di Siracusa (Pascasio) che subito la fa arrestare. In quel tempo, infatti, erano in vigore i decreti di persecuzione dei cristiani emanati dall’Imperatore Diocleziano. Durante il processo, Pascasio cerca di convincere Lucia a rinnegare la sua fede e a compiere sacrifici in onore degli dei romani, lei però non cede. Alterato dalle sue risposte, ordina che sia portata in un “luogo infame, dove sarai costretta al disonore” (postribolo), ma quando i soldati tentano di spostarla, Lucia miracolosamente diventa irremovibile. Pascasio pensa che Lucia sia una strega per questo ordina che sia cosparsa di urina e di riprovare a muoverla usando dei buoi. Ma gli animali non riescono a spostarla. L’arconte, infuriato, ordina che venga bruciata. Cosparsa di pece e olio, il corpo di Lucia viene avvolto dalle fiamme, ma non brucia. Alla fine Lucia fu decapitata con un colpo di spada. Si narra anche che le furono strappati gli occhi, per questo lei divenne protettrice della vista, anche se non ci sono fonti ufficiali su questo gesto terribile. L’emblema degli occhi sulla coppa, o sul piatto, è da ricollegarsi, semplicemente, con la devozione popolare che l’ha sempre invocata protettrice della vista a motivo del suo nome Lucia, da Lux, che vuol dire “luce”. Il 13 dicembre del 304, Lucia muore da martire e il suo nome e quello di Siracusa diventano famosi in tutto il mondo.

Attestato dalla testimonianza scritta di un testimone oculare: (come il miracolo della fine della carestia dell’anno 1646 di domenica 13 maggio) una colomba fu vista volteggiare dentro la Cattedrale di Palermo durante la Messa. A Palermo, in questo giorno in cui si celebra la Vergine siracusana, si ricorda un vetustu avvenimento, che la Santa implorata dai palermitani esaudì facendo arrivare nel porto un bastimento carico di grano. La popolazione tutta vide in quella nave la risposta data da Lucia alle tante preghiere che a lei erano state rivolte. Quando la colomba si posò sul soglio episcopale, una voce annunciò l’arrivo al porto di un bastimento carico di cereali.

I palermitani stretti nella morsa della fame da diversi mesi di carestia, non molirono il grano per farne farina, ma lo bollirono, per sfamarsi in minor tempo, aggiungendogli soltanto un filo d’olio, creando così la “cuccia”. Da quella volta i palermitani specialmente in ambito popolare, ogni anno per devozione ricordano solennemente l’evento, rigorosamente ricorrono all’astensione per l’intera giornata dal consumare farinacei, sia pane che pasta, si preferisce mangiare riso, legumi e verdure, questi ultimi due alimenti ci riferisce il Pitrè anticamente in questo giorno erano le ragazze palermitane che per venerazione se ne cibavano e non doveva mancare la “cuccia”, questa tradizione era dovuta alla preservazione degli occhi incantevoli. Dopo il miracolo, i palermitani decisero di bollire il grano e di condirlo con dell’olio di oliva. Fu così che nacque la cuccìa, il cui nome deriva da “coccio” cioè chicco. Anche se oggi la ricetta è del tutto rivisitata e resa molto più golosa.
La festività dovrebbe avere una finalità spirituale: in ricordo del miracolo la Chiesa propone il digiuno e l’astensione dal consumare, per questa giornata, pane e pasta. Un celebre motto palermitano recita: “Santa Lucia, vulissi pani, pani unn’ aiu e accussi mi staiu”. Ma il 13 dicembre, in un tripudio di arancine, panelle, gateaux e cuccìa, si preferisce consolare lo stomaco piuttosto che l’anima.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...